sabato 14 febbraio 2009

Il Sesto Aethyr

Allora uscii dalla casa della Strega, ma, non appena varcai la porta,
lontano era da me il mare, lontane le imbarcazioni, lontane le isole,
e quando mi voltai per tornare indietro, e chiedere spiegazioni, la
casa non c'era più, ma solo un muro rosso alle mie spalle.
Mi ritrovai così per un territorio scorticato e riarso, montagnoso e
ripido, dove anche il Sole, a picco, lavorava industriosamente per
scorticare il cuoio capelluto e lacerare le vesti nel sudore. Mi
incamminai, muovendomi tra palazzi dal tetto a spiovente e di colore
viola, e dalle mura sbrecciate e sporche: alle finestre si levavano
robuste grate di ferro, ma arrugginite in più punti, i templi erano
inevitabilmente chiusi, e si levavano, qui e là, delle torri dal tetto
conico, attorno alle cui minacciose punte si ergevano sinistre e
terrificanti lame ricurve, che riflettavano il sole negli occhi,
rendendo il paesaggio ancora più terribile.
Incamminandomi per quelle strade, misi meccanicamente le mani nelle
tasche della tunica, come per trovarvi qualcosa che mi desse
sicurezza, e ritrovai l'ultimo dono della Strega: due grosse monete
d'oro, che mi avrebbero aiutato nella continuazione dei miei viaggi.
La più importante risorsa del luogo pareva essere la pastorizia,
dacché il posto era pieno di recinti, e, all'interno di essi, si
muovevano gli animali più conosciuti, assieme ad altri tipici del
luogo, come gli Enu, dei cervi con occhi che parevano tuorli d'uovo, e
che uscivano vistosamente, e grottescamente, dalle orbite, ed i
Padlàr, delle grosse ed arruffate palle di pelo, che rimbalzavano
vistosamente emanando il loro caratteristico urlo, ed erano i
principali fornitori di NeroLatte. I volti di questi ultimi erano
vistosamente schiacciati e feriti, e spesso mancavano loro uno od
entrambi gli occhi, a causa dei tentativi di scavalcare, rimbalzando,
il recinto che, per limitare questi tentativi di fuga, per lo più
involontari, dato il bassissimo livello di intelligenza di quelle
bestie, all'interno era costellato di aguzze e fetide spine.
Trovai sul mio percorso un negozio di vestiti, e giacché le mie vesti
esotiche causavano mormorii infastididi e sguardi feroci da parte dei
passanti, entrai all'interno, ed acquistai degli abiti dal tipico
sapore orientale, come tutto in quel luogo, che esponeva camicie di
broccato arricchite da ricami, pantaloni in tessuto che sapevano del
blu della sera e della notte, e che, varcata una porta, presentava una
bottega di calzolaio, laddove venivano confezionate e cucite a mano
scarpe di buona fattura, ed elevata qualità: era un negozio per i
sinistri nobili che risiedevano nelle torri, lì spesi la mia prima
moneta d'oro, e ne uscii doviziosamente vestito ed avvolto da un
mantello viola.
Proseguii per la strada finché non incontrai un drappello di guardie:
portavano un elmo conico, lance di frassino dall'acuminata punta in
metallo, e divise argentate e nere, terribili nell'aspetto, il loro
sguardo feroce era reso più minaccioso dal modo in cui il metallo che
portavano, e l'argento che indossavano, riflettavano i raggi del sole
o rappresentavano la corona lunare. Non mi parlarono, ma mi indicarono
in modo brusco e selvaggio di cambiare strada, e così feci: non sapevo
parlare la loro lingua, ma vidi che la grata di una delle case era
stata divelta, non con degli strumenti, o precisamente, ma con
maniacale brutalità e ferocia, quasi ricorrendo alla rude forza di
mani della tenacia dell'acciaio, e così non feci domande, ma seppi
che, in quel luogo, era stato commesso un crimine.
Non potevo fare nulla al riguardo, e non sapevo per quanto tempo sarei
stato costretto a rimanere in quel luogo sinistro e spaventoso, così,
essendo la mia barba ormai diventata lunga, a causa di quelle mie
peripezie continue, decisi di raggiungere una bottega di barbiere, ed
entrando, venni accolto da una fila di sedili in legno, una parete
opposta ad esse, mostrava invece il gigantesco volto di un Genio dalla
pelle viola, dalle lunghe zanne d'elefante, e dai capelli neri ed
arruffati, che sorrideva felice, perché era stato ben rasato.
Il barbiere era un tipo tracagnotto e sorridente, e, non appena lo
vidi, mi passai una mano sul volto, per indicargli che avevo bisogno
di una bella rasata: egli abbandonò il libriccino pornografico che
aveva scritto lui stesso per i clienti, e nel quale orde di Genii si
fottevano le loro donne in tutti i modi e in tutte le posizioni, e mi
disse:
- Non c'è bisogno della comunicazione gestuale qui, si vede benissimo
che lei non è del posto: Viaggiatore Etirico? -
Turbato, risposi: - Esattamente. -
- Anch'io lo ero, prima di beccarmi una bella Maledizione che mi
confinò in questa bottega, senza possibilità di uscita: dormo qui,
bevo e mangio qui, il cibo me lo portano i clienti, e leggo sempre
questo volumetto, che ormai so a memoria, parola per parola, per
passare il tempo, a ciò si aggiunge che non posso neanche invecchiare
in questo luogo, e quindi la mia Maledizione eterna, o meglio,
invecchiare posso, sì, ma non morire. Fortunatamente non è passato
molto tempo da quando fui maledetto, forse quattro o cinque anni, non
lo so perché non posso conteggiare i giorni, lei mi capirà di sicuro,
diversamente non voglio immaginare in che aspetto mi avrebbe trovato:
posso anche patire la fame e la sete, ma non posso morirne...comunque,
sembra che a lei sia andata meglio, almeno sinora.....-
Toccandomi il mio Talismano naturale, risposi: - Sì,
effettivamente....-
- Una bella rasata? -
Avevo paura di mettere la mia gola nella mani di quel tipo, tuttavia
acconsentii, perché questo è il genere di esperienze che si fanno
negli Aethyr, e, diversamente, non vale neanche la pena di invocarli,
così mi sedetti, e parlammo mentre mi faceva la barba, e così venni a
sapere molte cose.
Seppi che il luogo era infestato da un Vampiro che risiedeva lì da
molto tempo, e che il Concilio dei Nobili, e il suo Margravio, gli
erano totalmente soggetti, e così le forze dell'ordine, che
intervenivano tutt'altro che tempestivamente, ed esclusivamente per
archiviare come caso burocratico qualunque evento fosse attribuibile
al Vampiro, che teneva segregate le persone per molto tempo, usandole
come continua fonte di nutrimento, e che solo quando le aveva
consumate totalmente e irreparabilmente, andava di nuovo a caccia. La
cosa più atroce che seppi, fu che c'erano casi in cui sparivano i
bambini dalle culle, e, al loro posto, venivano trovati dei
bambolotti. Inoltre, nessuno poteva sapere se, all'interno del
Castello che costituiva il centro del paese, ci fosse un solo Vampiro,
od un'intera famiglia, forse guardata da altre creature mostruose,
sicuramente da trappole. In ultimo, che la maledizione del barbiere
aveva a che fare con questa situazione, perché si sarebbe spezzata,
solo quando il paese fosse stato liberato dal Vampiro.
Allora gli chiesi se c'era gente nel luogo, magari proveniente dalle
forze dell'ordine, possibilmente addestrata, che fosse disposta a
formare un piccolo ma determinato manipolo per liberare il paese da
quella sciagura, che fosse stufa, che avesse avuto delle vittime in
famiglia, e gli dissi che io mi sarei posto al comando di quel pugno
di uomini per affrontare la situazione. La sua bottega, a causa della
maledizione, era intoccabile, e, lui, poteva parlare con tutti.
Mi disse che qualcuno c'era, e che sarebbe occorso del tempo per
organizzare la cosa, forse un paio di settimane e che, nel frattempo,
mi avrebbe nascosto, se lo desideravo: accettai, e gli dissi che non
gli avrei pagato la rasatura, ma che, quando tutto sarebbe finalmente
finito, lui avrebbe riottenuto la libertà, e, con essa, una moneta
d'oro.

E fu così che ebbe termine la Visione, sì, fu così che ebbe termine la
Visione.

venerdì 17 ottobre 2008

Il settimo Aethyr

Finché a noi si avvicinò una nave, ed era tutta in legno, e la sua prua era cesellata a forma di drago, e dai suoi fianchi si alzavano ali spuntonate, e dalla poppa una coda aguzza di scorpione, mentre sopra l'albero maestro al vento oscillava il nero stendardo dei pirati. Ma quanto mi intimorì di più, era l'essere essa tutta gremìta di quei Dèmoni dall'aspetto tremendo ai quali a fatica ero riuscito a fuggire, ed essi erano tutti rivestiti di armi e armature, sì, erano tutti rivestiti di armi e armature.
E non mancò molto che entrambe le navi fossero bersagliate da nugoli di frecce, e sull'uno e sull'altro dei ponti le genti cadevano, mentre sempre più il rostro della nave nemica si appressava al fianco della nostra.
E poi ci fu l'impatto, e lo scafo, e la chiglia, ed ogni parte del nostro legno vibrarono violentemente sotto l'impeto di quell'urto, e noi cademmo a terra sbilanciati, mentre quei predoni del mare, esperti in manovre di guerra, si rovesciavano sulla nostra imbarcazione con urla selvagge e spaventose.
E allora ci fu battaglia sul ponte della nave che iniziava ad imbarcare acqua, ed erano molti quelli che cadevano sotto la violenza delle armi, ed io mi accorsi che il sangue di quei Dèmoni era di un nero fangoso e putrido, mentre quello dei miei ospiti era di un oro risplendente, e, la battaglia rimanendo incerta per lungo tratto, io afferrai la spada lasciata al suolo da uno dei miei compagni caduto, e mi affrettai ad immergermi nella battaglia.
E non passò molto che mi ritrovai coinvolto in singolar tenzone contro una di quelle infami creature, ed essa digrignava i denti e grugniva, e urlava e tentava di azzannarmi, roteando con grande maestria e abilità il suo tridente, dal quale mi difendevo arretrando e parando come potevo, finché un suo fendente non mi fece scivolare la spada di mano, per condurla a volare alta nell'aria, e poi tuffarsi in acqua.
E allora rimasi impietrito nell'incertezza, perché da un lato avrei voluto tornare a combattere ed aiutare i miei ospiti, e dall'altro ero stato terrorizzato da quanto era successo, e così, spaventato e avvilito, osservavo voltandomi a destra e a sinistra lo svolgimento della battaglia, che mi sembrava protendere a nostro favore, sì, mi sembrava protendere a nostro favore, ma poi credetti di morire, e non vidi altro che rosso e nero.
E mi svegliai in un letto caldo e teporoso, e vi era una donna bruna e dagli occhi scuri ad accudirmi, e le chiesi che cosa fosse stato, e lei mi raccontò che lo scontro contro i pirati era stato vinto, sì, che lo scontro contro i pirati era stato vinto, e che i marinai erano sbarcati in città, ma che lei non conosceva le ragioni di quello sbarco, e che io ero svenuto perché ero stato colpito alla testa, e che avrei rischiato serie conseguenze, se non fossi stato affidato alle sue cure, e così mi aveva accudito con erbe e pozioni, e con decotti e radici, e aveva curato il mio male, poi mi accorsi tastando con le dita di una grossa benda dietro la mia nuca.
E allora mi offrì un semplice pasto a base di passato di verdure con fette di pane e miele, e c'era anche un bicchiere di latte saporito e appena munto, ed altre delizie di frutta e verdura. Ed io mangiai abbondantemente, e non potei fare altro che ringraziarla, ma lei accolse con un sorriso i miei inchini, e poi ci salutammo.

E fu così che ebbe termine la Visione, sì, fu così che ebbe termine la Visione.

lunedì 6 ottobre 2008

L'ottavo Aethyr

E precipitai, precipitai in quel buio per un tempo così esteso che non ne saprei dire l'uguale, ed i miei visceri si contorcevano per l'effetto della caduta, e le gambe parevano prendere il posto delle braccia, e le braccia quello delle gambe, e la testa rimanere centrale nel tronco, perché in quell'oscurità precipitando, privo di ogni punto di riferimento, persi la percezione stessa del mio corpo. Ma quanto fu che accadde di peggio, è che mi apparvero volti maligni e distorti fluorescenti in quella tenebra, e da essi si dipartivano mani e artigli adunchi, e cercavano di abbrancarmi e di prendermi, per portarmi alle loro bocche talmente aguzze di zanne, che alcune di queste, non trovando posto in esse, sgorgavano da pustole sanguinolente e putride poste sotto i nasi, o sulle guance, o nelle cornee o nelle pupille.
Ed io caddi, caddi, e continuai a cadere, finché, in un impeto di disperazione, mi si fece come certa la realtà della morte, perché, contro qualunque cosa avessi impattato, sicuramente non avrei avuto buona ventura.
E invece precipitai in un muro d'acque che sembrò dilatarsi per accogliermi, e, fattosi morbido, mi avvolse completamente, ed io poco alla volta recuperai il controllo delle mie membra intorpidite, e, gravato da questa nuova apnea, risalii nuotando in superficie.
E fu allora che mi accadde di vedere quell'infinita distesa d'acque, sotto un cielo che era di notte, e solo in quel momento compresi che ero precipitato all'incontrario, e che ero ritornato in quell'enorme specchio, sotto il quale si nascondeva il palazzo di Adraman, e che da qualche parte, all'orizzonte, si celava quell'oasi che tante amarezze mi aveva creato, così, raggiunta quella speranza dell'essere vivo, la smarrii di nuovo, perché temetti di rimanere fino all'inevitabile conclusione in quel letto di acque, o che quei Dèmoni maligni che avevo intravisto nei corridoi mi riportassero, raggiungendomi, dal terribile Adraman, ormai sicuramente rigeneratosi dal suo sangue sparso, dai suoi nervi lacerati, dalla sua carne strappata e dai suoi capelli sparpagliati.
Ma fu quando mi sentii scoraggiato nel profondo dell'anima, che vidi in lontananza formarsi un punto sopra le acque, e quel punto si fece forma geometrica indistinta, e quella forma geometrica indistinta si fece trapezio, e quel trapezio si munì di segmenti che si levavano verso il cielo, e quel trapezio munito di segmenti che si levavano verso il cielo si fece infine una lignea nave vera e propria, ed essa era munita a prua di una figura scolpita di Angelo, che con una mano puntava verso l'orizzonte, mentre nell'altra portava un gomitolo di corde e sartiami per vascelli.
E così fui caricato a bordo, e i marinai portavano tuniche di colore verde, e non avevano pelle, ma squame di colore dell'oro, ed i loro occhi scuri, dai quali si dipartivano dei fumi neri, risaltavano particolarmente tra le palpebre dorate che li circondavano, e parevano piccoli fari che, invece di proiettare luce, proiettassero tenebra. Pure non mi sembrarono malvagi: parlavano tra loro un linguaggio metallico e ronzante, e fecero di tutto perchè mi trovassi a mio agio e per rassicurarmi, nonostante vicendevolmente non comprendessimo le nostre lingue; e allora ebbi l'intuizione che si trattasse di una specie inizialmente malvagia e violenta, forse anche più distruttiva dei Dèmoni di Adraman, ma che fosse riuscita a convertirsi ad un insegnamento angelico, e che questo trovasse la sua epitome e il suo simbolo nella figura dell'Angelo posta a prua, ed indicante l'orizzonte con un dito, e recante un gomitolo di corde e sartiami nell'altra.
E viaggiammo per giorni e giorni, e vidi l'estensione del cielo riflettersi nello specchio delle acque, e lo specchio del cielo riflettere l'estensione delle acque, e venni nutrito con pesce che veniva pescato per me, sia pure a malincuore, perché dovevano avere quegli esseri una qualche forma di parentela con le creature marine, assieme a delle gallette che i marinai masticavano usando come condimento una scura poltiglia dall'odore pungente e nauseabondo, che prelevavano dalle stive della nave.
Non vi era grande allegria e felicità in quel punto, solo un ordine preciso e rigoroso, meticolosissimo, che veniva seguito dai marinai nell'esercizio delle loro funzioni, e che si riconosceva particolarmente quando incrociavamo altre navi, le cui attività rispecchiavano perfettamente le nostre, e con il capitano delle quali il nostro ufficiale scambiava brevi comunicazioni nel suo cristallino linguaggio.
Ed io, così diverso da loro, in quella situazione mi sentivo, pur trattato con tanta gentilezza, estraneo, e c'erano momenti in cui avrei preferito tornare a gettarmi in acqua, piuttosto che sopportare un secondo di più quel supplizio di solitudine, ed unico mio conforto era la Luna, alla quale sempre più spesso si volgeva il mio sguardo.

E fu così che ebbe termine la Visione, sì, fu così che ebbe termine la Visione.

sabato 4 ottobre 2008

Il nono Aethyr

Avvolto nel buio più tetro, compreso del più doloroso tremore e della paura più vigorosa, non so per quanto tempo, o per quali luoghi io venni portato, soltanto che mi sforzai, quasi nuotando in quell'ambiguo carico, di raggiungerne il fondo.
E poi il coperchio venne alzato, e la luce di torce innumerevoli agganciate alle pareti di quella strana stanza si rovesciò dentro lo scrigno, ed io, con l'unico mio occhio che non fosse con il resto del corpo seppellito vivo lì dentro, vidi che mi trovavo nel mezzo di un groviglio di corpi umani accatastati, e dove avevo trovato ruvido, quelli erano i muscoli, e dove avevo trovato flaccido, quello era il grasso, e dove avevo trovato aggrovigliato e arruffato, quelli erano i peli e i capelli.
E rimasi lì a lungo, e non saprei dire quanto, ma mi accorgevo che col tempo il carico sopra di me sembrava farsi sempre più leggero, e spesso mi capitava di sentire strani rumori, come di martelli, coltelli, seghe e denti, ma anche di rulli, catenacci e cinghie. Finché il peso si affievolì si fece esiguo, e muoversi sarebbe stato altrettanto pericoloso che rimanere fermi, e allora mi alzai lentamente, e sporsi con cautela la testa fuori del baule, e vidi attorno a me decine di contenitori come quello in cui mi trovavo, e da ognuno di essi emergevano corpi che, come quelli nei quali ero immerso, rilucevano di una materia trasparente, oleosa ed untuosa. Ma ancora più terrificante fu quanto vidi attorno, perché ero in una stanza tutta costruita in lamine di ferro sottili e molto taglienti, ed ovunque, sulle pareti, sul pavimento e sul soffitto, si distinguevano larghe strisce di sangue incrostato.
Ma al centro della stanza, così che potesse agevolmente muovere le braccia verso gli scrigni, e sollevare da essi i corpi, vidi torreggiare un gigante alto quasi tremila metri e cinquecento, ed esso aveva sei gambe, e sei stolide teste esso aveva, ed anche sei braccia, ed in una mano teneva una mannaia, e in un'altra una sciabola, e nella terza una sega elettrica, e nella quarta un martello da guerra, e nella quinta un mattarello, e nella sesta una mazza ferrata, ed al suo fianco si trovava una larga tinozza, piena di un vino dall'odore forte ed intenso, perché egli era Adraman, uno dei figli di Semjaza sopravvissuti al diluvio: i giganti mangiatori di uomini. E davanti a lui era la mia bilancia, ed il mio cuore era sul piatto sinistro, e la mia piuma era sul piatto destro, e la mia lira cadeva dal suo collo agganciata ad una lunga e spessissima catena, molto robusta, perché la usava come ornamento e come medaglione.
E poi Adraman prese da uno dei bauli una manciata di corpi, e li fece a pezzi con la mannaia, e ne tritò le ossa con la sega elettrica, e li pestò ripetutamente con la mazza ferrata e li riempì di buchi, e ne fece un impasto sottile con il martello da guerra, che poi stese con il mattarello, e che infine sistemò sulla punta della sua sciabola, per intingerlo nel vino, mentre dappertutto si rovesciava il sangue: e fu allora che mi accorsi che quella materia trasparente, densa ed untuosa di cui i corpi erano rivestiti, non solo impediva di morire, ma toglieva al corpo ogni sensibilità, tranne quella al dolore, perché l'impasto che il gigante stava avvicinando alla bocca continuava a tremare e a sussultare anche dopo essere stato intinto nel vino, ed egli divise quell'orrendo biscotto tra i suoi sei volti, che ne masticarono lentamente e ne inghiottirono i frammenti, e su ognuna di quelle facce deficienti si dipinse in successione un sorriso placido e compiaciuto. Ma poi Adraman azionò un congegno, ed una botola della dimensione di un uomo si aprì davanti a lui, ed in essa i suoi sei volti sputarono le ossa che non erano state ben tritate, perché non si incuneassero nei denti, assieme a quanto non avevano trovato digeribile, in un profluvio di saliva, mentre io mi accorgevo atterrito che anche quei pezzi tremavano; e poi, finalmente soddisfatto del pasto, si spostò di peso sopra una piattaforma presente al suo fianco, e tutte le lamine di cui era costituita la stanza presero a vorticare e a volteggiare, a chiudersi e a riaprirsi, mostrando colori sempre diversi ed ipnotici, od il vuoto oltre la stanza, ed ogni faccia delle lamine mi accorsi che era incrostata di sangue rappreso, e, dalle espressioni soddisfatte dei suoi volti, capii che il gigante stava giocando. Allora un'idea mi sovvenne, e mi rannicchiai nel baule, ed attesi, finchè il gigante, appesantito dal pasto e ipnotizzato dal gioco, decise di smetterlo, e, liberandosi della piattaforma, bloccò il vorticare delle lamine, tornò al posto che occupava precedentemente, e finì per addormentarsi.
Allora mi levai, per avvicinarmi cautamente al gigante e alla bilancia, e sollevai con la mano destra il cuore dal piatto sinistro di essa, e lo scagliai contro le trippe del gigante, e contro i rotoli di grasso che gli scendevano abbondanti dal collo, e che si erano formati esclusivamente da carne umana, ed esso ivi si perse e temetti di averlo smarrito lì dentro per sempre, ma poi ottenni l'effetto voluto, e quegli elastici cuscinetti di adipe lo rispospinsero verso di me come un sasso che venga scagliato da una fionda, ed io ne colsi la traiettoria, ed aprii la bocca, e lo ingoiai, cosicché esso tornasse per sempre al suo posto, come infatti avvenne. Ed intanto il gigante ancora dormiva, ed io sollevai la piuma dal piatto destro con la mano sinistra, e la inserii dentro il marchingegno della botola, ed essa si aprì davanti ai miei piedi, lasciandomi intravedere solo il buio e una caduta senza fine, e in ultimo sollevai la bilancia con entrambe le braccia, e la posai sopra la piattaforma a fianco del gigante, sopra la quale egli si posava per far volteggiare le lamine, ed io vi salii con essa, ma ancora non fu sufficiente, perché ben ferme esse erano, e decisi di saltare con tutta la mia forza sopra la piattaforma, e così feci, e più volte, e con sempre maggior vigore, e, pur non muovendo le lamine, facevo comunque molto strepito, finché il gigante aprì un occhio, e poi il gigante aprì l'altro occhio, accorgendosi di me, ed avventandomisi contro, portando la mia lira proprio davanti al mio volto.
E fu proprio in quel momento che le lamine iniziarono a vorticare, facendogli a pezzi le gambe.
Ed io mi ritrovai sotto una pioggia di carne, sangue, ossa e midollo, ed i miei occhi erano semichiusi a causa di essa, ma riuscii ad afferrare la mia lira ed aggrappato ad essa mi sospinsi vigorosamente e riuscii a raggiungere la botola, volteggiando sopra le lamine rotanti, mentre il gigante urlava il suo dolore ed il suo astio come centomila anime dannate.
E rimasi aggrappato alla lira e alla catena nell'oscurità della botola, finché anche il collo di Adraman non venne anch'esso sfracellato, e allora precipitai nell'oscurità e nella tenebra senza fine.

E fu così che ebbe termine la Visione, sì, fu così che ebbe termine la Visione.

martedì 30 settembre 2008

Il decimo Aethyr

E così nuotai a lungo, ed ogni speranza di sopravvivere vieppiù si allontanava sopra di me, mentre diverse volte credetti i miei polmoni già deboli tradirmi ed abbandonarmi implodendo a causa dell'apnea.
E avevo paura, e più volte mi costrignevo a non tremare, per non perdere il mio scarso controllo del nuoto, e quando credetti ormai giunta la fine, mi accorsi che questa sembrava concretizzarsi in un palazzo sottomarino dalla bellezza abbagliante.
Tutto bianco esso era, ma di un delicato blu cobalto erano le finestre, e le guglie dei casamenti e dei minareti erano rosse, e tanto grande, e massicio e robusto era quel palazzo che neanche dieci miliardi di uomini avrebbero potuto sostenerlo, no, neanche dieci miliardi di uomini avrebbero potuto sostenerlo.
Lo fiancheggiai per un poco, mentre la vista mi si faceva oscura, ed i polmoni premevano per l'agonia, finché raggiunsi una finestra un poco aperta, ed entrai, e vidi che le acque si appiattivano contro di essa, senza varcarla.
Allora avanzai sopra un tappeto rosso bordato d'oro, e attorno a me trovai divani e poltrone orientali, e scrigni e forzieri e bauli chiusi, e bracieri e torce accese. E raggiunsi una porta in legno, e l'aprii, affacciandomi sopra un vastissimo corridoio, e vidi creature vestite con livree e tuniche bianche, che generalmente portavano grembiuli rossi bordati d'oro, tanto che il tappeto presente anche lì sembrava continuare in essi, e questi apparizioni spettrali di braccia e teste e gambe separate che si muovevano come fantasmi, e copricapi di carta appuntiti che portavano vergati sopra caratteri arcani in finissime lettere d'inchiostro dorato.
Richiusi la porta, tremante, perché quelle genti avevano la testa come quella di un pesce, e i loro occhi erano chiarissimi, e da essi si dipartivano sottili ed abbaglianti fasci di luce, e portavano sulle mani e sui piedi verdi e sui volti scaglie appuntite ed umide di rettile, ed artigli assai affilati, e molte di esse, dallo sguardo minaccioso, le uniche ad avere canini appuntiti e sporgenti che scendevano fino al mento, goccianti un veleno corrosivo, erano munite di tridenti, reti, archi, asce, spade e bastoni.
E tremavo vigorosamente, temendo il peggio, perchè da un lato quelle creature terrificanti mi sbarravano il passo, e dall'altro un muro di acque, che sapevo non sarei riuscito ad affrontare nuovamente, mi chiudeva la via.
Più volte percorsi la stanza avanti e indietro, sempre cercando con un occhio qualche anfratto per ripararmi, in caso di bisogno, e mai trovandolo, e con l'altro facendo attenzione alla porta, che non si aprisse, e a volte mi avvicinavo a questa, pensando di presentarmi e di sperare nel meglio, altre tornando alla finestra aperta, ed immergevo il dito in quel freddo muro d'acqua, tentando di farmi animo, senza riuscirci. e di riaffrontare quel percorso, ma chiedendomi se sarei riuscito a varcarne ancora la superficie, perché la lontana oasi mi sembrava ormai come una botola chiusa sopra la mia testa in qualche punto lontano ed introvabile.
Non so quanto durasse la situazione, ma poi sentii dei passi avvicinarsi, e delle voci via via meno distanti dialogare in un linguaggio strascicato e gutturale, pieno di schiocchi e di scricchiolii, fastidiosissimo per l'orecchio, tale da dare l'impressione che il timpano fosse costantemente in procinto di scoppiare. E sentii quelle voci proprio dietro la porta, e fu un bene per me che si attardassero nei colloqui, ché, senza più esitare, tentai i bauli e gli scrigni e i forzieri che mi sembrarono della mia taglia, e, per malaventura, tutti trovai chiusi a chiave, finché, proprio mentre la porta cigolava lasciando avvertire dei passi, ecco che ne raggiunsi uno aperto, e mi ci tuffai dentro, e, preso dal terrore, non badai al contenuto di esso, che mi sembrò in alcuni punti flaccido, in altri ruvido, in altri ancora aggrovigliato e arruffato.
E le voci si interruppero, e sentii come il rumore di possenti narici che annusino, e tremai violentemente, perché nonostanti tutte le mie considerazioni paurose, pure non avevo fatto i conti con la potenza del loro olfatto, e ricordai la bilancia e la piuma e la lira, ma soprattutto il mio cuore perduto, e con esso, la mia umanità, e temetti il peggio, ma l'unico fatto che avvenne fu che sentii sollevare irruentemente da terra il baule nel quale mi ero nascosto, ed io, chiuso al buio e allo stretto tra cose di cui non sapevo, non potei fare altro che attendere, e farmi animo come potevo.

E fu così che ebbe termine la Visione, sì, fu così che ebbe termine la Visione.

mercoledì 24 settembre 2008

L'undicesimo Aethyr

Così fuggii da quel palazzo e mi ritrovai di nuovo nel deserto, ed esso si estendeva a perdita d'occhio ovunque attorno a me. Ed avanzai come il Sole avanza, e i miei piedi affondavano nella sabbia, e ne uscivano rimuovendo la polvere e i sassi, così che ogni passo era un'agonia che gravava sulle mie ginocchia, e non v'era nulla in quel luogo cui potessi implorare misericordia.
Ed ecco che la lira era legata a tracolla sulla mia schiena, ed il braccio della Bilancia, che sostenevo con gli incavi dei gomiti, tenendo le braccia piegate ad angolo, gravava dietro il mio collo, e in una mano tenevo la piuma, e nell'altra il mio cuore, perché temevo, riponendoli nelle mie tasche, di smarrirli nelle sabbie di quel deserto, e di non ritrovarli mai più.
E l'arsura mi bruciava la gola, ed il braccio della Bilancia mi pesava sul collo, facendosi via via più pesante, o almeno così mi pareva, e la lira pareva volermi trascinare all'indietro e farmi cadere, e sicuramente se fossi caduto, non sarei più riuscito ad alzarmi, mentre il mio sguardo costantemente ricadeva sul cuore pulsante nella mia mano, tanta era la mia paura di perderlo tra quelle sabbie.
E nessun Angelo venne a visitarmi in quell'Etere, nessuno ad aiutarmi, nessuno a confortarmi, tant'è che lo credetti il riflesso astrale di questa esistenza terrena in cui, pur venendo per apprendere, spesso non si impara nulla, oppure si viene costretti a dimenticare quanto si è appreso con tanta fatica, a causa della necessità di combattere il Male.
Ma almeno ero libero dalle necessità del sonno, e marciai per così tante ore, che ogni riga di questo scritto non basterebbe a contarne tre, e vidi più volte il sorgere e il tramontare del Sole, e la Luna istillarmi speranza facendosi sempre più piena e luminosa, mentre le stelle in cielo brillavano sul mio cammino, lasciando filtrare la luce dell'Infinito.
E poi giunsi ad un'oasi di grande splendore, ed essa era ricca di palme e di datteri e di noci di cocco, ed un limpido specchio d'acqua si estendeva a riflettere il cielo del mezzogiorno. E così le noci di cocco e i datteri offrirono ristoro alla mia fame, e la mia sete fu confortata dal latte e dalle acque, e, vinto dalla stanchezza, caddi in profondo deliquio.
Ma quando ripresi coscienza, non trovai più i miei oggetti, sì, quando ripresi coscienza, non trovai più i miei oggetti, e grande fu la mia paura, e grande fu il mio terrore, e posi la mano sul mio petto, come per rintracciare un cuore che non c'era più, e sentii il desiderio di lasciare sgorgare le abbondanti lacrime della mia disperazione, ma mi accorsi che non ne ero più capace, perché avevo perso la mia umanità.
E allora seppi con certezza che le mie cose erano state portate sotto le acque, sì, che sotto le acque le mie cose erano state portate con certezza io seppi, e senza alcuna esitazione in esse mi tuffai.

E fu così che ebbe termine la Visione, sì, fu così che ebbe termine la Visione.

martedì 23 settembre 2008

Il dodicesimo Aethyr

E allora risorsi come Orfeo, sì, risorsi come Orfeo risorge dalla Croce del Dieci, e seppi qual'era lo scopo della mia missione, e perché avessi intrapreso il pericoloso viaggio tra gli Eteri nascosti, ed era per ritrovare la mia Euridice, la mia perduta Euridice, giacché mi fu concesso di ritornare, ogni duemila anni, a cercarla.
Così venne a me un Angelo di rara bellezza, sì, di rara bellezza Egli venne, e mi recò una lira in osso di plesiosauro, le cui corde erano in budello di pterodattilo, e suonava e cantava un'aria di cui non si era ma conosciuto l'eguale, ed era una confessione tale da negare ogni possibile infrazione, ed io potei apprenderla a memoria, al primo ascolto.
Così l'Angelo, che recava in una mano un flagello d'argento e nell'altra un pastorale fatto della sostanza del fulmine, che portava una cintura del più levigato cuoio, la cui fibbia era dell'oro più pregiato incastonato di pietre preziose, e la cui tunica era immacolata come la più candida delle nevi, tale che i miei occhi venissero abbagliati allo splendore di essa, mi condusse attraverso il deserto fino a un Tempio che si stagliava sopra il baratro ai confini della Terra.
E allora venni condotto presso il Dio Anubi, ed Egli mi guidò attraverso scalinate senza conclusione e corridoi senza fine, le cui pareti erano decorate dei più incisivi geroglifici, tali da non poter più essere dimenticati, una volta visti, finché non raggiungemmo una vasta Sala, ai lati della quale Quaranta Giudici dallo sguardo severo erano seduti, sì, Quaranta Giudici dallo sguardo severo erano seduti, e di fronte a me si ergeva una Bilancia, e il Trono di Osiride si stagliava oltre di essa.
E il Dio dei Morti si levò dal Suo Trono, e venne a me senza profferire motto, e pose la sua mano sul mio petto, e lo attraversò senza farmi alcun male, estraendone il mio cuore palpitante. E pose poi quel cuore sopra il piatto sinistro della Bilancia, mentre sull'altro poneva Anubi una leggerissima piuma, e, giacché i piatti iniziavano a pencolare pericolosamente, io volli sfuggire alle loro mannaie, e misi mano all'arpa, e iniziai a recitare, e a cantare, e a accompagnare la Confessione Negativa che avevo appreso dall'Angelo, cosicché si rendesse noto che non avevo commesso infrazioni. Ma allora un grande clamore si levò nella Sala, e i Quaranta Giudici dibattevano, sì, i Quaranta Giudici dibattevano, mentre il Dio Osiride e il Dio Anubi rimanevano immobili e attenti, il primo a un capo, il secondo all'altro della Bilancia.
Poi tutti coloro che mi circondavano, e con essi gli Dèi medesimi, perdendosi nel dibattimento si fecero sempre più evanescenti, e facendosi sempre più evanescenti, si perdevano nel dibattimento e vieppiù scomparivano, e fu allora che diagnosticai che erano forme-pensiero o Archetipi, sì, che Archetipi o forme-pensiero essi erano, e contro di loro avevo disputato e avevo vinto, finché nient'altro rimase in quella Sala oltre alla Bilancia, e alla leggerissima piuma e al mio cuore sopra di essa.
E allora posi sotto il braccio la mia lira, ed afferrai con la mano destra il mio cuore e con la sinistra la leggerissima piuma, e mi allontanai da quel luogo.

E fu così che ebbe termine la Visione, sì, fu così che ebbe termine la Visione.